THOMAS STEARNS ELIOT. REALTÀ E PROFEZIA

Di Antonella Pederiva

Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo?

Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza?

Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?

Tratto da Cori da “La Rocca”, la più snobbata ma, soprattutto, la più profetica opera di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, Thomas Stearns Eliot, premio Nobel per la letteratura nel 1948, autore di diversi altri poemi, alcuni dei quali destinati al teatro: Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, La terra desolata, Gli uomini vuoti, Ash Wednesday, Quattro quartetti, Assassinio nella cattedrale e Cocktail Party. Esponente rappresentativo, insieme a James Joyce, Virginia Woolf e Ezra Pound, della corrente modernista, Eliot si soffermò ad analizzare la crisi della cultura occidentale, sottolineando, nel contempo, l’alienazione e il senso di solitudine di una società basata sul progresso scientifico, con uno stile innovativo lontano dalle immagini poetiche tradizionali. I suoi versi, costruiti attraverso immagini simboliche, dialoghi e ricordi, possono forse non essere di facile comprensione per un lettore non abituato all’intelligente gioco di rime e assonanze contrapposte che nascondono messaggi di rara profondità profetica.

In luoghi abbandonati

Noi costruiremo con mattoni nuovi.

Vi sono mani e macchine

E argilla per nuovi mattoni

E calce per nuova calcina.

Dove i mattoni son caduti

Costruiremo con pietra nuova,

Dove le travi son marcite

Costruiremo con nuovo legname,

Dove parole non son pronunciate

Costruiremo con nuovo linguaggio.

C’è un lavoro comune,

Una Chiesa per tutti,

E un compito per ciascuno:

Ognuno al suo lavoro.

(da Cori da “La Rocca”)

Le parole del poeta calzano a pennello in questo nostro particolare momento storico in cui tutto sembra senza senso dove le contraddizioni sono all’ordine del giorno, dove la politica e la cronaca, amplificano a dismisura situazioni ed episodi, connotandole a seconda delle loro necessità. Facile, in questo contesto, paragonarci agli uomini-ombra, gli abitanti della terra desolata di “The hollow men”, Gli uomini vuoti, del suo Poemetto del 1925.

Forse che non vaghiamo incerti in un oceano di dubbi?

Siamo gli uomini vuoti

Siamo gli uomini impagliati

Che appoggiano l’un l’altro

La testa piena di paglia. Ahimè!

Le nostre voci secche, quando noi

Insieme mormoriamo

Sono quiete e senza senso

Come vento nell’erba rinsecchita

O come zampe di topo sopra vetri infranti

Nella nostra arida cantina

Figura senza forma, ombra senza colore,

Forza paralizzata, gesto privo di moto;

Coloro che han traghettato

Con occhi diritti, all’altro regno della morte

Ci ricordano — se pure lo fanno — non come anime

Perdute e violente, ma solo

Come gli uomini vuoti Gli uomini impagliati.

“Il destino attende nella mano di Dio”, scrive Eliot nel suo Assassinio nella Cattedrale, “non nelle mani degli uomini di Stato che, chi bene chi male, fanno piani ed enigmi mentre i loro scopi gli si trasmutano in mano secondo la trama del tempo”[…]

“Noi non sappiamo molto del futuro se non che di generazione in generazione sempre accadono, ripetendosi, le stesse cose: nascite, morti, sponsali, guerre dissennate, odio e violenza… Gli uomini apprendono poco dalla esperienza propria o da quella altrui. Ma nella vita dell’uomo non ritorna mai lo stesso tempo. Soltanto lo sciocco, fisso nella sua follia, può pensare di poter fare girare lui la ruota nella quale egli gira”.

Solo uno sciocco, può pensarlo, o solo un incosciente, perché non sempre l’uomo pensa alle conseguenze dei suoi atti. Non sempre l’uomo è consapevole delle sue azioni o del suo non agire. Tutto si ripete nella Storia e l’uomo continua a perpetuare gli stessi errori senza averne sentore, senza averne memoria, oppure ricordando e non contestualizzando al suo tempo.

OCTAVIO PAZ. OLTRE IL DIRE, OLTRE IL FARE, TRA ANDARSENE E RESTARE. LA POESIA

Di Antonella Pederiva

Tra ciò che vedo e dico,

tra ciò che dico e taccio,

tra ciò che taccio e sogno,

tra ciò che sogno e scordo,

la poesia.

(da Dire, fare)

Tra andarsene e restare è incerto il giorno,

innamorato della sua trasparenza.

Il pomeriggio circolare si fa baia;

nel suo calmo viavai si mescola il mondo.

Tutto è visibile e tutto è elusivo,

tutto è vicino e tutto è inafferrabile.

Le carte, il libro, il bicchiere, la matita

riposano all’ombra dei loro nomi.

Nella mia tempia il battito del tempo ripete

la stessa testarda sillaba di sangue.

Dell’indifferente muro la luce fa

uno spettrale teatro di riflessi.

Mi scopro nel centro di un occhio;

non mi guarda, mi guardo nel suo sguardo.

Si dissipa l’istante. Immobile.

Vado e vengo: sono una pausa.

(Andarsene e restare)

È considerato il poeta di lingua spagnola più importante della seconda metà del Novecento, Octavio Paz (Octavio Irineo Paz Lozano).

Octavio Paz / foto web

Nato a Città del Messico, il 31 marzo 1914, deceduto nella stessa città il 20 aprile 1998, poeta, scrittore saggista e diplomatico messicano, insignito nel 1990 del Nobel per la letteratura, Paz rappresenta il pensiero che non sta al servizio del dogma bensì del dialogo. Uno spirito coerente nella vita e nella parola che, prima di fossilizzarsi in una sola verità, preferisce arricchirsi delle contraddizioni di tutte, interrogandosi. La sua prosa e la sua poesia sono luminose, dirette, naturali, lontane da qualsiasi sentimentalismo, esibizionismo o oscurantismo. Fedele fotografo della sua nazione, durante i suoi settanta anni di scrittore donò ai messicani e al mondo una vasta e prolifica produzione letteraria tra cui lucidi saggi, poesie vibranti, scritti di ricordi familiari e libri che raccolgono le sue vicende politiche e la storia del XX secolo.

Qual è il destino del poeta? Le parole.

DESTINO DEL POETA

Palabras? Sí, de aire,

y en el aire perdidas.

Déjame que me pierda entre palabras,

déjame ser el aire en unos labios,

un soplo vagabundo sin contornos

que el aire desvanece.

También la luz en sí misma se pierde.

DESTINO DEL POETA

Parole? Sì, d’aria,

perdute nell’aria

Lascia che mi perda tra le parole,

lascia che sia l’aria sulle labbra,

un soffio vagabondo senza contorni,

breve aroma che l’aria disperde.

Anche la luce si perde in se stessa.

STEF BURNS LEAGUE INFIAMMA IL SANTOMATO LIVE DI PISTOIA

Di Antonella Pederiva

STEF BURNS e PAOLA ZADRA al Santomato Live Club – foto marcobartolomei –

È uno dei più talentuosi musicisti della scena rock americana, ha collaborato con l’icona dello shock rock, Alice Cooper, e con i leggendari Huey Lewis and The News, oltre che con altre grandissime stars internazionali quali Michael Bolton e Sheila E. Dal 1995 la sua chitarra segue Vasco Rossi nei suoi tour, firmando con Vasco anche diversi album in studio. Lui è Stef Burns, statunitense di Oakland, artista eclettico e versatile, che, con il suo progetto solista “Stef Burns League”, si è esibito ieri sera, 4 novembre 2021, a fianco di Juan Van Emmerloot alla batteria e a Paola Zadra, basso elettrico, al Santomato Live Club, storico locale di Pistoia, diretto artisticamente da Tony De Angelis. Un concerto all’insegna del rock che ha infiammato ed entusiasmato il pubblico presente e che ha confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, il grande valore e la bravura dell’artista e dei suoi musicisti.

4 NOVEMBRE. COSA RESTA DEL CORDOGLIO? LA GUERRA CON GLI OCCHI DI UN SOLDATO

Di Antonella Pederiva .

4 Novembre. Nel giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate, io e Marco, di Emmea Video&Poetry, vogliamo ricordare tutti i soldati morti per combattere una guerra assurda, vogliamo ricordare tutti quei giovani mandati a colpire altri giovani come loro, strappati alle loro terre e al loro futuro, vorremmo farlo con delle poesie di Giuseppe Ungaretti e di Salvatore Quasimodo che raccontano il loro stato d’animo, che ne raccontano lo strazio, che parlano di uomini e del nostro destino.

UNGARETTI:

SOLDATI

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Come può sentirsi un uomo al fronte, sotto le bombe, ignaro del suo destino? Come le foglie d’autunno, basta un colpo di vento e la terra ti accoglie.

FRATELLI

Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua

fragilità

Fratelli

Siamo tutti fratelli, e il vostro dolore è il nostro, lontani da casa, dai nostri affetti, dalle nostre vite. Fratelli.

VEGLIA

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

L’orrore di vedere ucciso un compagno, l’anima che si strazia, la consapevolezza di poter essere il prossimo a morire.

SAN MARTINO DEL CARSO

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

Ma nel cuore

nessuna croce manca

È il mio cuore

il paese più straziato

Nessuna croce manca, nessuno può essere dimenticato, la guerra uccide anche nel cuore.

QUASIMODO:

UOMO DEL MIO TEMPO

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero

i padri, come ucciserogli animali che ti videro per la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

Quando il fratello

disse all’altro fratello:«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

Salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Siamo sempre gli stessi. Non impariamo mai dai nostri errori. Riempiamo pagine di libri di storia e su quelle pagine versiamo lacrime destinate presto ad asciugarsi al vento dell’ipocrisia. Come faremo a spezzare, finalmente, la catena? Come cessare di tramandarci l’odio? Dimenticate i padri, le loro tombe affondino nella cenere.

MARIO RIGONI STERN. UN UOMO CHE EBBE IL CORAGGIO DI RESTARE UOMO

Di Antonella Pederiva

“È molto più difficile dire no che sì”.Invita a conservare la propria dignità, Mario Rigoni Stern, che oggi celebriamo nel centenario della sua nascita, il 1° novembre 1921. E nessuno meglio di lui può farlo. Proprio lui che osò sfidare il potere e salire con orgoglio sul carro dei vinti. Impossibile per me non pubblicare lo stralcio intero del suo colloquio con il suo biografo, Giuseppe Mendicino, il 22 settembre 2006, ad Asiago, il suo paese.

“Eravamo numeri. Non piú uomini. Il mio era 7943. Ero uno dei tanti. Mi avevano preso sulle montagne ai confini con l’Austria, mentre tentavo di arrivare a casa, dopo l’8 settembre del ’43. Ci portarono a piedi fino a Innsbruck e poi, dopo quattro o cinque giorni, ci caricarono sui treni e ci portarono in un territorio molto lontano, che a noi era sconosciuto, oltre la Polonia, vicino alla Lituania, nella Masuria, in un lager dove poco tempo prima erano morti migliaia di uomini; gli storici parlano di cinquanta-sessantamila russi. Erano prigionieri, morti di fame e di tifo. Noi andammo ad occupare le baracche che avevano lasciato libere, nello Stammlager 1-B. Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salò, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto «Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!», abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito.

E fummo coperti d’insulti, di improperi. Avevamo visto cos’eravamo noi in guerra, in Francia prima, poi in Albania e in Russia. Avevamo capito di essere dalla parte del torto. Dopo quello che avevamo visto, non potevamo piú essere alleati con i tedeschi. Perciò da allora fummo dei traditori. Fummo della gente che non voleva piú combattere. E ci trattarono come tali. Nell’ordine dei lager venivamo subito dopo gli ebrei e gli slavi; prigionieri dentro i reticolati, con le mitragliatrici piazzate nelle torrette che ci seguivano ogni volta che ci spostavamo. Abbiamo resistito. Tanti di noi non sono tornati. Piú di quarantamila nostri compagni sono morti in quei lager, durante la prigionia. Io ritornai nella primavera del 1945, a piedi, dall’Austria, dove ero fuggito dal mio ultimo campo di concentramento. Arrivai a casa che pesavo poco piú di cinquanta chili, pieno di fame e di febbre. E feci molta fatica a riprendere la vita normale. Non riuscivo nemmeno a sedermi a tavola con i miei, o a dormire nel mio letto. Ci vollero molti mesi per riavere la mia vita. Avevamo dietro le spalle la Storia, che ci aveva aperto gli occhi su quello che eravamo noi e su quel che erano coloro i quali ci venivano indicati come nostri nemici. Quello che ci avevano insegnato nella nostra giovinezza era tutto sbagliato. Non bisognava credere, obbedire, combattere. E l’obbedienza non doveva essere cieca, pronta e assoluta. Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. È molto piú difficile dire no che sí. Ripeto spesso ai ragazzi che incontro: imparate a dire no alle lusinghe che avete intorno. Imparate a dire no a chi vi vuol far credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chiunque vuole proporvi cose che sono contro la vostra coscienza. Seguite solo la vostra voce. È molto piú difficile dire no che sí.

Un uomo, Rigoni Stern, di grande tempra morale, con un preciso codice etico, che includeva valori universali, come il senso di giustizia, il coraggio, l’amore per la natura, la generosità verso gli altri. Un uomo privo di retorica, schietto, sincero, forte di una forza costruita su un duro lavoro introspettivo. Un uomo ricco di umanità e di rispetto che il potere aveva mandato a combattere una guerra che non gli apparteneva, contro un nemico che non voleva riconoscere come tale. Chi tira le fila, si serve sempre del popolo, lavora bene per forgiare braccia che facciano per lui il lavoro sporco di annientare uomini, anime, all’unico scopo di imporre la sua volontà.

“Questi i risultati della pace e della libertà: lavorare e costruire per il bene degli uomini, di tutti gli uomini; non uccidere, distruggere e conquistare con la forza delle armi, ma vivere con il lavoro per la fratellanza e l’aiuto reciproco”, scriveva in una delle sue opere più celebri, “Il sergente nella neve”.”Nessuno pensava: se muoio; ma tutti sentivano un’angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa?”

Siamo tutti fratelli, ci ricorda Rigoni Stern, uno dei più grandi ed intensi scrittori dell’Italia del dopoguerra, uno dei pochi sopravvissuti alla ritirata di Russia del 1943, e dobbiamo aprire gli occhi sulle trame del potere, smetterla di ubbidire a chi ci vuole mettere l’uno contro l’altro.

“Sul fiume gelido vi erano dei feriti che si trascinavano gemendo. Sentivamo uno che rantolava e chiamava; – Mama! Mama!Dalla voce sembrava un ragazzo. Si moveva un poco sulla neve e piangeva. – Proprio come uno di noi, – disse un alpino: – chiama mamma.La luna correva tra le nubi; non c’erano più gli uomini, ma solo il lamento degli uomini. – Mama! Mama! – chiamava il ragazzo sul fiume e si trascinava lentamente, sempre più lentamente, sulla neve.”

RINASCITA di Antonella Pederiva

Dal libro “Anima d’aquila”

Quando finalmente

sarà spazzata l’ombra

dagli accessi oscuri

in cui fu rilegata

l’anima intatta

ritornerà in vita.

Dai pesi inutili

si libererà

dalle catene

in cui fu castigata

ingenua vittima

di altrui destini.

Forza trarrà

dalla sua stessa essenza

ed alta in cielo

nella sua imponenza …

Si librerà.

ALDA MERINI. LA POESIA, LA BELLEZZA, IL TESTAMENTO.RICORDO DI UNA GRANDE POETA A 12 ANNI DALLA MORTE

Di Antonella Pederiva

Se mai io scomparissi

presa da morte snella,

costruite per me

il più completo canto della pace!

Ché, nel mondo, non seppi

ritrovarmi con lei, serena, un giorno.

Io non fui originata

ma balzai prepotente

dalle trame del buio

per allacciarmi ad ogni confusione.

Se mai io scomparissi

non lasciatemi sola;

blanditemi come folle!

Aveva solo 22 anni, Alda Merini, quando scrisse questa poesia, il 3 novembre 1953. Un presagio aleggia nei suoi versi, si fa strada il pensiero della follia. Aveva già conosciuto il manicomio, Alda, seppur così giovane, in tempi, però, in cui ogni malattia psichica seguiva quel destino. Mi sono chiesta tante volte quale sarebbe stato oggi il suo percorso, come diversamente si sarebbero dipanate le ombre che costituiscono questa idea che abbiamo di normalità. Alda sarebbe stata “la Merini” se tutto ciò non fosse esistito? Se la sua vita fosse stata un sereno porto sicuro? La poesia più immensa nasce, spesso, dal dolore, da una immane sofferenza, da un tormento interiore che solo le parole sanno placare. Senza il manicomio non avremmo mai potuto leggere “La Terra Santa”, una delle sue raccolte più belle, la cruda testimonianza della vita oltre quelle sbarre troppo simili ad una prigione. Una prigione tremenda, crudele. La perdita della dignità il prezzo da pagare.

Il dottore agguerrito nella notte

viene con passi felpati alla tua sorte,

e sogghignando guarda i volti tristi

degli ammalati, quindi ti ammannisce

una pesante dose sedativa

per colmare il tuo sonno e dentro il braccio

attacca una flebo che sommuova

il tuo sangue irruente di poeta.

Poi se ne va sicuro, devastato

dalla sua incredibile follia

il dottore di guardia, e tu le sbarre

guardi nel sonno come allucinato

e ti canti le nenie del martirio.

Nessuno riuscì, però, a placare quel sangue irruente di poeta. Alda Merini, dopo ogni esperienza di internamento, rinascerà, come fenice, dalle sue ceneri e donerà al mondo liriche indimenticabili e sublimi. Per lei parlano le biografie ma più di tutto parlano i suoi versi, carichi di sentimento e di disperazione, di attaccamento alla vita e di riconoscenza, di amore e di condanna, di rivalsa e di denuncia. Alda Merini fu donna di grande personalità, anticonformista e sincera, avulsa da ogni forma d’ipocrisia. Una donna vera, stravolgente, originale. Il suo corpo cederà alla malattia il 1° novembre del 2009 ma il suo spirito indomito vive in ogni pagina delle sue opere, a perenne monito e ad eterna testimonianza di bellezza.

La mia poesia è alacre come il fuoco,

trascorre tra le mie dita come un rosario.

Non prego perché sono un poeta della sventura

che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,

sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,

sono il poeta che canta e non trova parole,

sono la paglia arida sopra cui batte il suono,

sono la ninnanànna che fa piangere i figli,

sono la vanagloria che si lascia cadere,

il manto di metallo di una lunga preghiera

del passato cordoglio che non vede la luce.

HALLOWEEN, I CELTI E LE ZUCCHE

Di Antonella Pederiva

Sfatiamo qualche mito! Le origini di Halloween non sono americane ma celtiche, irlandesi. E questa festa aveva un significato fantastico. Il passaggio dall’estate all’inverno e l’unione spirituale tra corpi e anime. Per i Celti, infatti, l’anno nuovo non cominciava il 1° gennaio come per noi oggi, bensì il 1° novembre, quando aveva termine il periodo del caldo e ci si preparava ad affrontare le rigide temperature invernali restando, la maggior parte del tempo, in casa. Questa transizione veniva celebrata con lunghi festeggiamenti, lo Samhain (pronunciato sow-in), che, dalla derivazione gaelica, significa “summer’s end”, fine dell’estate, nota in Irlanda anche come “La Samon”, la festa del Sole. Scopo della festa era, sicuramente, propiziatorio. Si ringraziavano le divinità per il raccolto dei mesi precedenti e si chiedeva loro protezione per i difficili giorni a venire. La terra si preparava al riposo, tutto sembrava morto, ma si sapeva bene che era una morte apparente, un lungo sonno che avrebbe conosciuto poi un fiorente risveglio, un’alba nuova prospera e rigogliosa. La dimensione degli spiriti e quella dei mortali, sempre divisa dallo spazio e dal tempo, si incontravano, secondo la credenza, in questo giorno. Fuori dagli usci si accendevano fiaccole, si lasciavano ciotole di cibo per sfamare le anime che tornavano a far visita ai parenti. Con l’avvento del Cristianesimo, attraverso la conquista di quei territori da parte dei Romani, la Chiesa, che spesso cercò di sradicare i riti ritenuti pagani, si appropriò di questa consuetudine, togliendole gran parte del significato originale e istituendo la festa di Ognissanti, che veniva fino allora festeggiata il 13 maggio, ma conservando il culto dei defunti attraverso la festa dei morti del 2 novembre. Solo i cristiani ortodossi non aderirono e Ognissanti continuò ad essere festeggiata in primavera. Con le migrazioni seguite ad una grande carestia, dall’ Irlanda, la tradizione si spostò negli Stati Uniti, dove prese grandi proporzioni e da dove fu esportata in tutto il mondo prendendo sempre più connotazione puramente consumistica, come, purtroppo, spesso succede anche con tante altre celebrazioni e ricorrenze.

Una curiosità: l’abitudine di intagliare la zucca, che in Irlanda viene chiamata Jack O’Lantern, leggendario personaggio condannato dal diavolo a vagare per il mondo, di notte, alla sola luce di una zucca scavata contenente una candela, è una consuetudine già fiorente in Toscana, Veneto e Friuli. In Veneto, in particolare, si tramanda nei secoli la notte delle Lumère, o Suche Baruche, zucche con fattezze di teschio, che rappresentavano i morti che si credevano uscire, nella notte, dalle tombe, per muoversi in processione verso le case.

COSTRUIRE NON CONSUMARE

Di Antonella Pederiva

E quante volte ti senti fuori posto, fuori luogo? “In una società in cui il cielo è soltanto un insieme di nubi gassose, in cui non c’è né timore né tremore […] cosa c’è di più inutile, di più gratuito e ingiustificato della poesia?” scrive Susanna Tamaro in “Il tuo sguardo illumina il mondo”, un libro dedicato ad una amicizia e ad un grande poeta dei nostri tempi, Pierluigi Cappello, prematuramente scomparso. Son sempre i migliori che se ne vanno, recita un detto. E non ho dubbi che per un oscuro scherzo del destino o per una trama ben più vasta della nostra umana comprensione, sia così. “Finiremo come gli indiani d’America” continua Tamaro “chiusi in qualche riserva i cui confini si faranno sempre più stretti. Tu sarai Toro Seduto e io Cavallo Pazzo. […]

immagine web

Coltivare anziché consumare. […] È il coltivare che rende le cose nobili, importanti. I sassi non si coltivano. Si coltivano le piante, i rapporti, perché l’atto di coltivare contiene in sé un’unica idea. Quella della crescita. Se siamo amici, è come se ci prendessimo cura entrambi di una piantina. La innaffiamo quando ha sete, la mettiamo al riparo quando ha caldo. Teniamo il terreno sgombro intorno a lei perché non crescano le erbacce. Nel farlo non ci chiediamo se, con il tempo, quel germoglio diventerà un fiore, un arbusto o un albero. Ciò che ci rende felici è sapere che, se uno di noi due un giorno non potrà portare l’acqua per dissetarla, sarà l’altro a farlo. Non ci sarà arsura capace di ucciderla. Cos’è infatti l’amicizia se non un’attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro?”

Cos’è, infatti, l’amore tra due persone se non la stessa cosa? Mi chiedo io. In una società in cui pure l’amore vien dato sotto condizione, dove tutto gira intorno ad un concetto egoistico e superficiale di soddisfazione personale, di una visione narcisistica di esaltazione dei propri desideri e del proprio star bene, quanto conta darsi e dare, costruire invece di consumare? Poco, è la risposta che mi do. E temo che farò compagnia a Susanna nella riserva.

Forse non in questa vita sarà diverso destino.

LA BOLLA

Di Antonella Pederiva

Fu quando mi accorsi

che c’ero io

nella bolla da cui cadeva la neve

che mi colse lo sgomento.

Appoggiai le mani

sulla nuda plastica

cercando invano una via d’uscita.

Ma la neve continua a cadere

scossa da forze

che non riuscivo a fermare

e mi ritrovai a terra

madido di sudore e di pianto

consapevole finalmente

della mia prigionìa,

spogliato completamente

della mia arroganza.

Alzai il capo

per cercare di scorgere

almeno un timido raggio di sole

ma il cielo sembrava velato

da oscure nuvole minacciose.

“Così è così”, pensai,

“che si sente il leone in gabbia

lontano dalla sua terra

e dalle sue abitudini,

dalla sua famiglia e dai suoi affetti.

Così è così che si sente

il canarino

costretto per sempre

a cantare la sua pena”.

Andai dai miei amici

e li chiamai, li implorai

ad uno ad uno,

ma erano troppo indaffarati

a plasmare pupazzi

per accorgersi di me.

La mano continuava intanto

a scuotere la bolla.

SHE TOLD ME, IL NUOVO SINGOLO DI AGO E TONY DI BART

L’ENERGIA VITALE DI UN DISCO ORIGINALE ED INNOVATIVO

di Antonella Pederiva

Si preannuncia già un successo il nuovo singolo di Agostino Presta, Dj Ago. Un uomo, un artista, che, dall’anno del suo esordio, è rimasto sempre saldo e presente nel panorama musicale italiano ed internazionale. Succede, quando l’amore supera il mero calcolo, quando la musica è esigenza, necessità, aria che respiri, quando il talento è frutto anche di sacrifici e lavoro. Ho avuto spesso l’occasione di parlargli; in ogni sua parola traspare passione, Ago è pura energia, un vulcano di parole e di progetti. Lo ascolti e l’età anagrafica passa in secondo piano; Ago è entusiasmo e voglia di vita, vivacità. Ago è ricerca continua di nuove sensazioni. Tantissimi anni sono passati dal disco d’oro come miglior brano dance per “For You”, un singolo del 1982 che, con tre milioni di copie vendute, resterà negli annali come uno degli album più importanti della dance italiana ed internazionale. Ma ancora oggi, nessuno dimentica anche “Electric Cucaracha”, “Chinese Eyes”, “Computer in my mind”, “I want you”, ”It’s all right”, canzoni che questo grande artista ha portato in giro per il mondo, insieme a tantissime hit dell’epoca. Nella sua parallela professione di Dj, Ago ha sempre usato il vinile, i suoi occhi si accendono quando ne parla, vederlo all’opera, mentre le sue mani sfiorano, accarezzano i dischi, è uno spettacolo nello spettacolo. Nel 2020, per “The Night”, la sua ultima creazione, un brano che, in 12”, contiene le versioni di Joe Mangione e di Dj Sandro Puddu, remix di Joe Vinyle e della Relight Orchestra con Sandro Tommasi, lo ha voluto blu, un blu elettrico, eccentrico ed originale, come, d’altronde, questo indiscusso protagonista della notte è sempre stato.

DJ AGO


Per questo suo nuovo progetto, “She Told Me”, Ago, stavolta, non è solo. La sua voce si unisce a quella di un personaggio molto conosciuto nell’ambiente dance, un artista che è stato capace, negli anni ‘90, di vendere più di 20 milioni di copie e che vanta collaborazioni con grandissimi artisti internazionali, quali gli “Incognito”. La sua hit più famosa, “The Real Thing”, oltre a conquistarsi il primo posto nella sua patria, l’Inghilterra, nel 1994 raggiunse i primi posti nella Top 40 olandese, restandovi per ben 6 settimane. “Do It”, altro suo famoso brano, oltre ad imporsi come hit internazionale, rimase, per lungo tempo, nelle classifiche italiane.

DJ AGO


Stiamo parlando di Tony Di Bart, nome d’arte di Antonio Di Bartolomeo, un nome che tradisce chiare origini italiane, calabrese nel sangue come Dj Ago. Il feeling tra i due è evidente, ad accomunarli, oltre alla terra natale, è la musica, sono le stesse sonorità. L’opera, che vedrà il suo debutto il 29 ottobre, e che è stata realizzata con la produzione esecutiva di Joe Vinyle e la co-produzione e arrangiamenti di Stefano Colombo, produttore dei famosi “Change”, si avvale anche di altre collaborazioni eccellenti tra cui Elio Baldi Cantù, Camillo Corona e il mitico Ronnie Jones, quest’ultimo come Background Vocal. Una nuova traccia che rappresenta una tappa nella maturazione musicale di Ago, che prende sotto braccio Soul e Funky, i due generi musicali che costituiscono il DNA dell’artista. Ad accompagnare il brano, un Video Clip, anche questo visibile dal 29 ottobre sul canale YouTube – Joe Vinyle Channel, che ne risalterà ancora di più l’eleganza e la profondità musicale. Nel disco, scelte sicuramente coraggiose per questa produzione, arrangiamenti e melodie di grande raffinatezza che vanno in controtendenza con le attuali tracce di artisti dance. In un mercato che in questo momento non lascia tanto spazio a generi nuovi o sonorità melodiche e strutturate, “She Told Me”, ambisce a diventare una hit internazionale, e, per usare le parole del produttore esecutivo Joe Vinyle, “nasce per infrangere le barriere nazionali e per svegliare il pubblico dopo il letargo forzato che abbiamo subito per effetto della pandemia mondiale che di fatto ha assopito le nostre vibrazioni musicali”.

DJ AGO al Border Point Disc

Un progetto ambizioso, quindi, che mira ad oltrepassare i confini italiani e ad entrare in contatto con il mondo, che punta a stuzzicare l’interesse di tutti gli operatori del settore. L’operazione non dovrebbe essere difficile, “She Told Me”, è adrenalina pura, è una corrente che attraversa tutte le fibre del corpo, è risveglio. Insieme al nuovo LP “Opera Fourty”, album che uscirà a fine novembre sia in versione digitale e, com’è ovvio, in vinile colorato e in edizione numerata (distribuito da Joevinyle Store e da Self Distribuzione), disco che includerà 3 inediti , il brano “The Night” e ben 4 remix dei brani più famosi che hanno reso celebre il Dj naturalizzato toscano, ha tutte le carte in regola per entrare nelle simpatie e nel cuore del pubblico, per essere il fiore all’occhiello delle radio, degli eventi e delle discoteche, quest’ultimi quando finalmente sarà di nuovo concesso ad arte e musica di esprimersi nelle loro piene potenzialità, quando, finalmente, ritorneranno ad essere centro e fulcro di aggregazione e di crescita sociale e culturale, quando sarà loro restituita la perduta dignità e libertà di espressione.

DI VITA E FRAMMENTI. IL MONDO POETICO DI ANNA IACCARINO

Di Antonella Pederiva .

“Tutti la esortavano a diventare qualcuno / la vita stessa glielo imponeva / mentre lei voleva diventare / semplicemente chi era”.Vorrei iniziare con questi versi, tratti dalla poesia “Semplicemente lei”, la mia analisi al libro di Anna Iaccarino, “Di vita e di frammenti”, Guida Editori. Riflessioni ad alta voce in punta di piedi, come recita l’introduzione alla prima parte, parole rubate ai pensieri, un cammino all’interno del proprio cuore, senza retorica, sentimenti colti e donati, emozioni da condividere.

Ascolto. “Poi col tempo aveva capito / quanto la parola fosse preziosa / quanto poteva dare e quanto togliere”. Chiaroscuri. “Ed aveva capito che il dubbio è apertura / il margine per esplorare le nudità delle parole / e vestirle di nuove scie di sguardi sul mondo”.

Il percorso di Anna Iaccarino è il percorso di una donna che, nell’alba di un giorno, posa il suo sguardo sullo specchio della vita e coglie nei suoi occhi un desiderio di cambiamento. L’immagine riflessa le chiede verità, di “riappropriarsi del suo riaversi / dove il senso del cammino / tornasse ad abitare l’amore”. È una richiesta urgente, inderogabile. Anna accoglie. Anna si ribella. Anna sceglie di essere. Anna scrive. Qualsiasi svolta deve avere un attimo preciso. L’ora X. L’implosione, l’esplosione, il Big Bang. Ma il cambiamento è il risultato di anni di domande a cui non hai saputo dar risposta. Il diradarsi di nebbie che ti impedivano il cammino e ti offuscavano gli occhi. D’improvviso vedi più chiaro e acquisisci una nuova consapevolezza. Davanti a te si prospettano nuove strade e nuove possibilità. Puoi solo posare un piede, poi un altro, superare le incertezze e proseguire. È la forza che finalmente si fa strada tra i dubbi della tua anima per dare spazio alla luce imprigionata dal buio del timore. Una volta che hai scatenato il vento liberatore della tempesta delle emozioni, non puoi più tornare in catene. Anna è libera e la sua realtà si apre a nuovi scenari, a nuove prospettive e visioni.

“Così se mi chiedi cos’è l’amore / ti rispondo, non lo so. / So solo che amo / e che amare fa di me quella che sono /[…] sono, in quanto amo, / ed è l’unica cosa che vorrei essere”.

Anna pubblica il suo primo libro, “Il tempo di noi”, l’emozionante viaggio di un uomo che si racconta attraverso spaccati del proprio tratto esistenziale e di vita familiare, a cui fa seguito la raccolta di poesie “Passi in cammino di parole”, fino a giungere a questo “Di vita e frammenti”, una raccolta di scritti editi ed inediti, una minuziosa ricerca introspettiva volta a scardinare sé stessa, a dare un suono ai pensieri, uno spaccato di ricordi e di accadimenti che mettono a nudo un’anima bella, pulita, cristallina. Anna Iaccarino è, sicuramente, una bella scoperta, un’oasi serena in cui riposarsi, il “vivere” che “diventa quella moltitudine di sé / che incontra paure gridanti, silenzi in ascolto / preghiera di cuori in ormeggio di nidi”, quel vivere che ci accomuna nelle gioie, nelle sofferenze e nei ricordi.

Di Anna Iaccarino:

A MIO FRATELLO

Mi svegliavo e non riuscivo ad emettere un suono / pensavo a te,

chiuso in quel buio che ti bloccava mente e corpo. / Solo gli occhi,

ogni tanto in un battito perso / belli come sempre e con lo sguardo

riverso / in quel maledetto altrove. / Era l’unica piccola gioia / che

dava sollievo al cuore, / l’unica fiammella di speranza / nel sogno del

tuo risveglio. / Tutto mancava di te / cuore, coraggio, l’infinito sapere.

/ Le lacrime, il dolore liberato, / la maschera, la disperazione nascosta.

/ Poi, in un silenzio gentile / come la tua anima cara e lieve / un giorno

sei volato via / chiudendo ogni distanza, / lasciando il vuoto

assordante / della tua assenza, per sempre. / Sentirti e pensarti

ovunque / sono stati i giorni dopo. / Il miracolo di averti vissuto / la

certezza di te, oltre il tempo.