Penso che metterò in versi un elogio alla banalità, che non è la stessa cosa che dire semplicità od umiltà. Il semplice comprende il valore delle piccole cose e dà loro rilievo, le esalta, le riveste di straordinarietà. L’umile capisce di non sapere a sufficienza, di dover essere sempre pronto ad imparare e a riconoscere le proprie mancanze ed i propri errori. Il banale si accontenta dell’ovvio, delle frasi fatte, dell’abitudine, del sentito dire, delle convenzioni, del certo e stabilito, della “normalità” del preconcetto, del pregiudizio, della standardizzazione e della perfezione del “si è sempre fatto così, e così deve essere”….
“A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno «Oooooh!”Da “On the road” (Sulla strada) di Jack Kerouac.
Jack Kerouac, (Lowell, 12 marzo 1922 – St. Petersburg, 21 ottobre 1969), è stato uno scrittore, poeta e pittore statunitense.È considerato uno dei più importanti scrittori americani e padre fondatore della Beat Generation, un movimento culturale americano costituito da vari autori, come Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Gary Snyder, Michael McClure, Charles Olson che influenzò la società del tempo, mettendo in risalto il disagio delle nuove generazioni e il contrasto tra il sogno americano, propagandato dal governo, e la realtà del dopoguerra. Kerouac scrisse oltre trenta tra romanzi, raccolte di racconti e di poesie, lettere e saggi, tra le sue opere: La città e la metropoli, Sulla strada, L’ultimo vagabondo americano, I vagabondi del Dharma, Bella bionda e altre storie, I sotterranei, Maggie Cassidy, Satori a Parigi.
Mario Luzi è stato, per la poesia del Novecento, come il faro per il marinaio. Mario Luzi ha attraversato il suo tempo con il compito di portare luce e accendere speranze. Una poesia, la sua, coniugata a quell’ermetismo che fu luogo di espressione anche per poeti come Ungaretti, Quasimodo, Gatto, che arriva al cuore perché voce dei sentimenti di ognuno, che sa interpretare il vissuto di ognuno. Un poeta-testimone delle vicende umane, profondamente legato ai valori cristiani con i quali era cresciuto, un uomo che fece della ricerca il suo scopo di vita, che, fino all’ultimo, si interrogò sui grandi misteri dell’esistenza. Leggere Luzi è intraprendere un cammino dentro la propria anima, è accettare di essere piccola particella di quella creazione del cui senso ci sfugge. In bilico tra bene e male, tra gioia e sofferenza, i nostri passi si muovono sui sentieri dell’ignoto, speranzosi di futuro.
“La pace / se verrà, ti verrà per altre vie / più lucide di questa, più sofferte; / quando soffrire non ti parrà vano / ché anche la pena esiste e deve vivere / e trasformarsi in bene tuo e altrui”. Nessuno di noi è passato indenne attraverso il dolore, ognuno di noi ha sacrificato qualcosa e ricucito cicatrici, più o meno fonde. Insieme a Luzi, ci domandiamo anche noi quale sia il ruolo dell’amore e se davvero, un giorno, ne vedremo la vittoria.
Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.
Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.
Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.
(“Alla vita” da “La Barca”)
Dalla terra e dal suo grembo siamo nati, dalla barca che ci conduce verso lidi sconosciuti, osserviamo l’incedere dei giorni, vivendo o sopravvivendo ai marosi. Il riferimento della raccolta “La barca” di Luzi è chiaramente rivolto al sommo poeta Dante, suo conterraneo. Come Dante, anche Luzi unisce la letteratura al sacro, si veste di salvezza, non senza perdere di vista la quotidianità dell’esistere.
“Credi che il tuo sia vero amore? Esamina
a fondo il tuo passato” insiste lui
saettando ben addentro
la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.
E aspetta. Mentre io guardo lontano
ed altro non mi viene in mente
che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani
sfrangiato appena tra gli scogli dell’isola,
dove una terra nuda si fa ombra
con le sue gobbe o un’altra preparata a semina
si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.
“Certo, posso aver molto peccato”
rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,
sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.
“Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso”
riprende la sua voce con un fischio
di raffica sopra quella landa passando alta.
L’ascolto e neppure mi domando
perché sia lui e non io di là da questo banco
occupato a giudicare i mali del mondo.
“Può darsi” replico io mentre già penso ad altro,
mentre la via s’accende scaglia
a scagliae qui nel bar il giorno ancora pieno
sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio
per le ore di libertà e l’uomo che le ha dato il cambio
indossa la gabbana bianca e viene
verso di noi con due bicchieri colmi,
freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.
(“Il giudice” da “Nel magma”)
Nel magma navighiamo, insieme ad altri, non siamo soli. Siamo giudici e giudicati, eternamente visti da altri, uomini dai mille nomi, solo nell’incontro ci ritroviamo.
“Questa felicità promessa o data/ m’è dolore, dolore senza causa/ o la causa se esiste è questo brivido/ che sommuove il molteplice nell’unico/ come il liquido scosso nella sfera/ di vetro che interpreta il fachiro”
(da “Questa speranza”, “Onore del vero”, 1957)
Mario Luzi sta alla poesia, come il cielo sta alla terra e ogni articolo è troppo breve per descriverne la grandezza, Mario Luzi (Sesto Fiorentino, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005) è “troppo” per essere compresso dentro ad una biografia. Mario Luzi è colui che è divenuto nello spazio ventoso del suo scrivere, colui che è durato e durerà oltre il suo attimo.Che Luzi non sia stato riconosciuto con il Nobel, una grande ingiustizia, mitigata solo dal lungo tempo che gli è stato concesso per donarci la sua opera.
MARIO LUZI APRILE-AMORE
Tempo che soffre e fa soffrire, tempo
che in un turbine chiaro porta fiori
misti a crudeli apparizioni, e ognuna
mentre ti chiedi che cos’è sparisce
rapida nella polvere e nel vento.
Il cammino è per luoghi noti
se non che fatti irreali
prefigurano l’esilio e la morte.
Tu che sei, io che sono divenuto
che m’aggiro in così ventoso spazio,
uomo dietro una traccia fine e debole.
È incredibile ch’io ti cerchi in questo
o in altro luogo della terra dove
è molto se possiamo riconoscerci.
Ma è ancora un’età, la mia,
che s’aspetta dagli altri
quello che è in noi oppure non esiste.
L’amore aiuta a vivere, a durare,
l’amore annulla e dà principio. E quando
chi soffre o langue spera,
se anche spera,che un soccorso s’annunci di lontano,
“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso”. Sono parole di Hannah Arendt, la teorica della politica, come amava definirsi, prima donna a scrivere un saggio sul totalitarismo, “Le origini del totalitarismo” (1951). È la carenza di pensiero politico, la carenza di teoria politica, secondo la Arendt, a favorire i totalitarismi del Novecento, in particolare nazismo e stalinismo. Hannah Arendt è una libera pensatrice, costretta ad abbandonare la Germania perché ebrea, un’apolide per necessità che troverà casa negli Stati Uniti nel 1941. Arendt individua in antisemitismo, imperialismo e ideologia, le tre cause del totalitarismo. L’ideologia in particolare, che non tollera dubbi e dissensi, che parte da sé stessa per deformare la realtà, per trascinare le masse, che attraverso il controllo dei mezzi di stampa arriva alla manipolazione dell’informazione, che porta, a sua volta, ad addomesticare e a creare sudditi fedeli, i sudditi convinti, appunto, di inizio articolo. Hannah Arendt scriverà anche altro, “Vita activa. La condizione umana”, del 1958, e, soprattutto, “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, del 1963 ma non cesserà mai di ribadire l’importanza del pensiero critico, mezzo necessario per opporsi ad ogni tentativo di strumentalizzazione e prevaricazione, condizione indispensabile per dare protezione al nostro essere liberi.
Deriva da “Lucus” (luogo ricco di folti boschi), il nome di questo piccolissimo paese, che sembra un tutt’uno con la natura circostante. Lucchio si nasconde, quasi, alla vista, non vuole creare scompiglio. I muri delle sue case sono fatti della stessa materia dei monti, i tetti sembrano rubini incastonati ad abbellire quel gioiello della creazione che è il panorama toscano. Siamo nel comune di Bagni di Lucca, nella provincia di Lucca, poco distanti però, anche, dal confine pistoiese. Ad accoglierci per primo, è l’allegro scrosciare della fontana, eretta sul luogo dove sgorgava una più antica sorgente naturale, composta da una fonte e da una grande vasca di cui si hanno prime notizie nel 1605. Mentre saliamo verso la rocca, i nostri occhi ritornano bambini, il paesaggio che si delinea è da fiaba. La sensazione è quella di trovarsi in un luogo magico, in cui l’uomo ha saputo entrare senza disturbare, i nostri piedi camminano tra stretti vicoli acciottolati. Eccoci, finalmente, alla rocca. Siamo sulla cima di uno sperone di roccia a strapiombo sul fondovalle del torrente Lima e la visuale da qui è strabiliante. Per la sua particolare posizione strategica probabilmente fu un luogo fortificato dell’Alto Medioevo e anche se le prime notizie documentarie risalgono ad epoca più tardiva, dalle caratteristiche costruttive, possiamo tranquillamente farla risalire ai secoli XI-XII. Per la difficile accessibilità, è molto probabile che l’insediamento sottostante non sia stato spontaneo ma edificato allo scopo di dare rifugio ai militari che la presidiavano, anche se alcune fonti parlano di un insediamento successivo. Questi riferimenti storici non tolgono, però, poesia all’insieme. L’aria d’autunno è fresca, siamo, dopotutto, a 670 metri, ci arriva il profumo dell’erba, del muschio, ci attraversa risvegliando sensazioni di benessere e di pace. Lontani dal brulichìo del traffico e dalla frenesia delle città, ci colmiamo di questo verde rasserenante che ci appaga e ci riporta alle nostre origini di uomini in simbiosi con l’ambiente. Andarsene è quasi doloroso, ci aspetta il fondovalle e la confusione di sempre e ben comprendiamo chi resta, i 33 abitanti di questa favola, che affrontano le difficoltà e i disagi della lontananza dai servizi che i centri urbani offrono. Lucchio è armonia, è riconciliazione, è forza rigeneratrice, è sinfonia di colori, Lucchio è bellezza. Ripartiamo con la promessa di ritornare, non senza aver portato via le immagini per poterle offrire a chi non c’è stato, non senza tentare di trasmettere ad altri le nostre emozioni.
Un uomo che, in un’epoca di guerra, ha combattuto per la pace, un uomo “immagine” che ha saputo fare della sua popolarità il mezzo per portare messaggi di speranza. Un artista scomodo, tenuto d’occhio da quei vertici che consideravano pericolose le sue prese di posizione. In lui c’è molto di più della sua canzone “Imagine” cantata come inno da più di una generazione. Un uomo coraggioso che poteva tranquillamente scegliere di adagiarsi sugli allori dei suoi successi e condurre una vita agiata, senza preoccupazioni. Un incontro decisivo, quello con l’adorata compagna, Yoko Ono, per l’acquisizione di una nuova consapevolezza. Un attivista determinato ed appassionato che osò, insieme ad altri attivisti, schierarsi contro la guerra del Vietnam e contro la politica estera americana del tempo.
Di John Lennon
WORKING CLASS HERO
EROE DELLA CLASSE OPERAIA
Appena nato ti fanno sentire piccolo
non ti danno il tempo, invece di dartelo tutto
finché il dolore si fa così grande che non senti proprio niente
bisogna essere un eroe della classe operaia
bisogna essere un eroe della classe operaia
prima ti feriscono a casa tua e colpiscono la tua scuola
ti odiano se sei intelligente e disprezzano gli stupidi
finché sei così dannatamente pazzo che non riesci a seguire le loro
regole
bisogna essere un eroe della classe operaia
bisogna essere un eroe della classe operaia
quando ti hanno torturato e terrorizzato per venti assurdi anni
poi si aspettano che intraprendi una carriera
quando non puoi funzionare davvero sei così impaurito
bisogna essere un eroe della classe operaia
bisogna essere un eroe della classe operaia
ti tengono drogato con la religione, il sesso e la TV
e pensi di essere così intelligente, di non appartenere a nessuna classe
e di essere libero
ma resti dannatamente zotico, per come la vedo io
bisogna essere un eroe della classe operaia
bisogna essere un eroe della classe operaia
continuo a dirti che c’è una stanza in cima
ma prima devi imparare a sorridere mentre uccidi
se vuoi imparare a essere come la gente sulla montagna
bisogna essere un eroe della classe operaia
bisogna essere un eroe della classe operaia
Se vuoi essere un eroe devi seguirmi
Nato il 9 ottobre 1940, Lennon cadrà sotto i colpi di pistola di un folle
Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963, quando dal monte Toc si staccò una frana che crollò sul bacino artificiale sottostante, provocando un’ondata che si riversò nella valle.270 milioni di metri cubi di rocce e detriti sommersero Erto, Casso e Longarone, radendolo al suolo (1.450 morti e 487 bambini) poi le frazioni di Pirago, Rivalta, Villanova e, parzialmente, Faé. Il numero delle vittime di questa tragedia è approssimativo, poiché molti corpi non vennero mai ritrovati. Allora, solo Tina Merlin, corrispondente per Belluno de “L’Unità”, raccolse le proteste degli abitanti di quelle zone durante la costruzione della grande diga dalla partenza dei lavori, nel 1957, solo lei ne segnalò i pericoli. Venne denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”, assolta, fu chiamata con disprezzo la “Cassandra del Vajont”. “Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto”, scriveva Merlin, portando dati precisi e denunciando anche i rischi per Longarone. Rimase inascoltata. Il resto è cronaca, per la Giornalista, ed il G maiuscolo è d’obbligo, rimorso di non aver potuto fare di più.”Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa”, scrisse il giorno dopo la tragedia. Sì è imparato?Ogni anno, il 9 ottobre, la notizia rimbalza di quotidiano in quotidiano, da telegiornale a telegiornale, ed è giusto così perché i ricordi aiutano a non dimenticare. Una ferita ancora aperta, il disastro del Vajont, una ferita che difficilmente si rimarginerà. È scritta in quella terra martoriata dove la natura sta riprendendosi i suoi spazi, è scritta e marchiata sulla pelle dei suoi abitanti che portano i cognomi delle vittime innocenti di una speculazione avida e immorale, del cinismo e della presunzione di uomini che hanno anteposto il denaro e la gloria al rispetto per la vita. Eravamo noi, quel giorno nei nostri letti, seduti nei nostri salotti. Eravamo noi, spazzati via dalla furia di quell’acqua che, prima dell’arrivo degli orchi, ci dava ristoro e nutrimento. In un attimo fummo portati via dalla corrente, scaraventati ovunque, e non fummo altro che corpi da piangere.Pene lievi per i colpevoli, un procedimento giudiziario, giocato sul filo della prescrizione che ha deluso i sopravvissuti per le condanne a pochi anni, lievi se rapportate agli effetti dell’ondata. La giustizia però ha riconosciuto la prevedibilità dell’evento: la Sade (poi Enel) sapeva. E, cosa rarissima in Italia, ha riconosciuto responsabile, tra gli altri, anche lo Stato. Ma nessuna giustizia restituisce ciò che è perso, nessuna giustizia restituisce padri, madri, figli, fratelli, amici. Resta il monito, spesso solo commemorato, moltissime volte disatteso. Perché l’uomo fatica a cambiare, e mentre le bocche si riempiono di parole, le coscienze restano vuote e silenziose come quella valle dopo l’alluvione.
È il compito del poeta, indagare i sentimenti, frugare nelle pieghe dell’anima per raccontare emozioni, raccogliere sensazioni e distribuirle sotto forma di parole, dare voce a chi non ha voce, essere testimonianza della realtà delle cose, osservare i mutamenti della società e del tempo, denunciare. Ogni poeta si sofferma su ciò che più ispira il suo verseggiare, oggetti, natura, persone, spirito. La poesia di Leonardo Rindi si veste di sofferenza, si fa condanna, si fa tuono, si fa fulmine, lancia che trafigge con la forza delle lettere, scelte sapientemente a strappare i veli di un argomento scabroso, doloroso, talmente difficile da trattare che solo pochi hanno l’ardire di sfiorarlo. Leonardo Rindi osa, e lo fa con tutto l’amore di cui il suo cuore è capace. Ed è un cuore affamato di compassione, di comprensione, profondamente afflitto e incredulo davanti alla piaga della violazione dell’innocenza. Ogni bambino del mondo avrebbe bisogno solo di tenerezza, di sguardi puri, di affetti sinceri, di mani volte ad abbracciare il suo candore perché un bimbo è la parte più limpida dell’universo, ciò che viene fatto ad un bimbo si ripercuote sull’andamento del Creato.
Nella foto: “In trasparente” di Leonardo Rindi Copertina di Ornella Micheli e Valerio Toninelli, “Sogno di un mistico” (2019)
“Nessun fiore restituirà la perduta primavera / nessun diario accoglierà / l’ombra nascosta nel segreto dell’orrore”, nessuno mai potrà ridare ali alla speranza quando un angelo si trasforma in demone, quando colui a cui un bimbo fiducioso si affida, assume l’aspetto dell’orco delle favole. Tutto si dissolve nella mente di un bimbo, le ombre calano a rivelare il buio in ogni attimo del giorno. “Mamma / questi panni non servono a coprire / La forma dell’inferno è dentro / accucciata fra i brandelli / del mio vincolo di obbedienza” Affida a vocaboli taglienti, Leonardo, il compito di scuotere la coscienza del lettore, l’incarico di rivelare le trame oscure della perversione.”Sì, sono stato un capriccio, / una tua dipendenza”. Evoca tutta l’angoscia, la disperazione, la paura, la rassegnazione, Rindi, lo fa con profondo rispetto e con caparbietà di risvegliare coscienze dormienti. Ci riesce bene. Pagina dopo pagina la nebbia si dirada, i protagonisti acquistano voce, sono urli assordanti che implodono nelle orecchie, sono i nostri figli prigionieri di un incubo senza fine. Troppo poco si fa per fermare questa piaga, questa serpe che si annida sotto vesti insospettabili, genitori, parenti, amici, uomini di religione, uomini “perbene”. Troppo miti le pene, troppo indulgenti le condanne. Un’anima strappata, che nessun filo può ricucire, grida giustizia. Retta, equa, pari giustizia perché nulla potrà più essere recuperato, “l’incubo si riaffaccia dal cratere del passato, / il gioco del supplizio / evoca / il rumore della paura / in un girotondo di parole. / Il bisogno di non credere / brulica nei ricordi / di una bocca ricucita dal silenzio”. Bocche silenziose che difficilmente trovano riscatto, occhi spalancati, permeati di stupefatto dolore, “in trasparente di ore scandite nella colpa, / in trasparente. / In trasparente d’anni sciupati nell’ombra, / in trasparente di vita, / di supplizi e di segreti, / in trasparente”.”In trasparente” è un libro che va letto, un antidoto all’indifferenza, un saggio in poesia, Leonardo Rindi, un poeta che merita attenzione, che farà ancora parlare di sé e delle sue opere e che, dopo “Il mercante di sogni” e “Uno sguardo di cielo tonante”, i suoi precedenti lavori, ha saputo dare conferma della sua sensibilità e del suo talento attraverso versi pregni di empatia ed umanità.
“Mentre questo romanzo veniva letto, a Oviedo, dai membri della giuria che pochi giorni dopo gli avrebbero assegnato il Premio Tigre Juan, a molte migliaia di chilometri di distanza e di ignominia una banda di assassini armati, pagati da criminali ancora peggiori, che hanno abiti ben tagliati, unghie curate e dicono di agire in nome del “progresso”, uccideva uno dei più illustri difensori dell’Amazzonia, una delle figure più rilevanti e coerenti del Movimento Ecologico Universale.Questo romanzo non potrà più arrivare tra le tue mani, Chico Mendes, caro amico di poche parole e molti fatti, ma il Premio Tigre Juan è anche tuo, e di tutti coloro che continueranno il tuo cammino, il nostro cammino collettivo in difesa di questo mondo, l’unico che abbiamo.”È rivolto a Chico Mendes, raccoglitore di caucciù brasiliano e Segretario generale del Sindacato dei lavoratori rurali di Brasileia, attivista e ambientalista, che si è battuto per tutta la vita contro il disboscamento della foresta amazzonica, assassinato il 22 dicembre 1988, il discorso di Luis Sepúlveda alla consegna del premio per il suo romanzo “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”. Nato il 4 ottobre 1949 a Ovalle, a nord di Santiago da un’indigena mapuche della Patagonia cilena, Sepúlveda fu un grande scrittore, ma ancora di più fu un grande uomo, che fece della sua esistenza una missione, un uomo in bilico tra letteratura e impegno sociale e civile. Uno scrittore rivoluzionario appassionato di verità e di giustizia, nato nel Paese dei poeti, nel Cile di Neruda, Allende, Parra, Bolaño, Serrano, e dei tanti artisti che il colpo di stato militare di Pinochet del 1973 tentò di mettere a tacere; molti di loro vennero messi a morte, altri imprigionati, altri esiliati. Luis fu arrestato due volte e condannato all’esilio. Una vita avventurosa stroncata da un nemico diverso, subdolo, quel virus che sta tenendo a scacco ancora l’umanità. Nell’Ospedale di Oviedo, in Spagna, dove dal 1996 viveva con la moglie Carmen Yáñez, poetessa cilena, Sepúlveda si arrese il 16 aprile 2020 ma la sua parola, la sua testimonianza continuerà a vivere per sempre, come è il destino di coloro che nella parola hanno trovato i mezzi per diffondere luce, valori, che, attraverso le lettere, hanno aperto occhi ed orizzonti sulla realtà, sulle prevaricazioni, sulle sopraffazioni, sulle mistificazioni. Penne coraggiose che hanno, sì, saputo far sognare, come lui nella favola “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, ma che in questo sogno hanno inserito chiavi e messaggi per comprendere il mondo. Sepúlveda, “Il cileno errante”, come era stato ribattezzato dagli indios Shuar, nel ’77, vive ogni volta che ci immergiamo nelle sue storie. “Nessuno riesce a legare un tuono”, scriveva in questo libro, nessuno è riuscito in vita a rubargli quel suo sentire che metteva a disposizione del lettore, nessuno ha saputo imbavagliare la sua voce onesta e sincera, nessuno ha saputo frenare la sua ricerca di verità. Nemmeno la morte.Tratta dalla raccolta “Poesie senza patria”, edita da Guanda (2003), una struggente poesia dedicata all’amata moglie, un amore senza patria e senza confini, fatto di addii e di ritorni, rara e tenera unione di cuori.
LA PIÙ BELLA STORIA D’AMORE
L’ultimo suono del tuo addio,
mi disse che non sapevo nulla
e che era giunto
il tempo necessario
di imparare i perché della materia.
Così, tra pietra
e pietra seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
implorano la fame dell’udito.
Che le strade e la polvere
sono la ragione dei passi.
Che la strada più breve
fra due punti
è il cerchio che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un brano di Vivaldi.
Che i geni amabili
abitano le bottiglie del buon vino.
Con tutto questo già appreso
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante a scrivere
La Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio
non si finisce mai
di imparare e di dubitare.
E così, ancora una volta
tanto facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda una stella fugace,
seppi che la mia opera era stata scritta
perché La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.
Sepulveda ricevette in Italia il Premio Internazionale Ennio Flaiano, nel 1994, ed a seguire, il Premio Chiara e il Premio Alessandro Manzoni alla carriera, rispettivamente nel 2014 e nel 2015, ma il premio più grande è sicuramente la gratitudine e l’amore di chi lo ha letto e di chi continua a leggerlo.
Il sentimento non è mai parola e nemmeno pietà. Il sentimento è una pianta che affonda radici, profonde, inestirpabili. Non basta un vento leggero per sradicarlo, non basta scuoterlo. ALDA MERINI si chiede se l’amico sia vero o solo un sogno. Siamo talmente feriti dall’ipocrisia, che risulta difficile credere possa esistere la sincerità, temiamo sia solo aria, evanescente, inafferrabile. Ma di aria viviamo…..
A UN AMICO
di Alda Merini
Non credere che remare
su una barca
col peso degli anni sulle braccia,
su una barca che rischia
di affondare,
sia la gloria o la vita.
– è soltanto la paura lontana
che quel fiume possa anche
travolgerci nel cuore.
Il sentimento non è mai
parola
e nemmeno pietà,
ma solamente un grazie
della vita
che domanda se l’amico
sia vero
o solo un sogno.
foto /web
Quanto è difficile essere amici, mantenere un’amicizia. Quanto è difficile costruire ponti indistruttibili, unioni fatte di empatia ed ascolto. Fragile è la terra che regge l’amicizia, pesanti i passi che conducono alla comprensione. Non credere che remare su questa barca, sia gloria, le braccia si fanno sempre più pesanti, a volte non riescono più a governare i remi, l’acqua inizia a penetrare. Ma l’amico non sa, e se non sa, non è. È solo vocabolo troppo usato, è solo parola che si faceva sogno.